100 Anni di edulcorata leggenda…
“Produciamo anche macchine… ” In India quella campagna pubblicitaria se la ricordano ancora.
Erano gli inizi del 3 millennio e dopo il successo del modello Indica la Tata Motors, ormai posizionata tra le prime industrie dell’auto in India, riteneva importante ricordare all’affezionata clientela che TATA era una conglomerata di ben 96 aziende e che il core business restava quello di sempre, quello in cui aveva creduto il capostipite, Jamshetji Tata, 100 anni prima: l’acciaio. La leggenda, per essere esatti, fa risalire la passione per l’acciaio ancora prima, anno di grazia 1867. Quando in visita a Manchester lo stesso Jamshetji ebbe occasione di udire Thomas Carlyle pronunciare la storica massima: “La nazione che si assicurerà il controllo della acciaio, avrà anche il controllo dell’oro”. Intuizione davvero profetica, come dimostra il nesso sempre più stretto tra finanza e acciaio, e in generale finanza e metallurgia.
Ha fatto sensazione, a fine gennaio scorso (tra l’altro in coincindenza con la trionfale pubblicizzazione chez nous dell’ottima performance Fiat) la notizia dell’ennesima prestigiosa acquisizione da parte di una maison indiana, questa volta la conglomerata Tata (e di nuovo, sulla scia della fusione Mittal-Arcelor) nel settore dell’acciaio: Tata steel che in serrata competizione con la brasiliana Corus, riesce ad assicurarsi l’anglo-olandese Corus, posizionandosi in questo modo (da XXima che era) al 5* posto tra I più grandi produttori di acciaio del mondo. Il valore simbolico di una simile piazzamento, per l’opinione pubblica di quell’India che quest’anno si è trovato a celebrare anche il 60imo dell’Indipendenza coloniale, è naturalmente rimbalzato dalla stampa indiana su quella internazionale – nonostante un calo in borsa dell’11% del titolo Tata Steel motivato, secondo gli analisti, dall’eccessiva esposizione finanziaria richiesta per l’acquisizione. A conti fatti quasi 13 miliardi di dollari: in assoluto la più ingente nella storia degli affari indiani.
Il nervosismo è rimasto ad aleggiare nel cielo delle Industrie tata anche dopo che, I primi di aprile, l’acquisizione è stata ratificata. Il prezzo dell’acciaio è nel frattempo salito a ulteriore convalida del costoso affare; ma circa il come finanziare l’ingente debito si sono aperte le danze – e le non poche speculazioni. 4 miliardi di dollari dovrebbero provenire da un’emissione di titoli indiana, al grosso provvederà una cordata di ben 7 banche. Ma che succederà ai 30 mila operai (e salari) europei, che rispetto alle sotto-paghe indiane rappresenteranno molto presto un costo eccessivo, in un simile contesto debitorio? Nel frattempo un’altra societ metallurgica indiana, Kumar Birla, in competizione con Vedanta, si è posizionata al top mondiale per la produzione di fogli di alluminio (da cui si ricavano le lattine per Pepsi, Coke & Co) dopo aver acquisito l’americana Novelis. Mentre un’altra Americana, Minnesota Steel, è finita pochi giorni fa nel paniere di Essar, altra acciaieria indiana. E non contento del primato raggiunto dopo la fusione con Arcelor, il super tycoon Lakshmi Mittal (indiano ma con residenza a Londra e tassazione off shore), sarebbe entrato in negoziati nientemeno che con il gigante coreano Posco. Come si vede un attivismo frenetico caratterizza in questa fase il comparto dell’acciaio – e il fatto che a guidare le danze ci siano tanti marchi indiani, molto spesso in diretta competizione fra di loro, si spiega col fatto che alla declinante richiesta cinese sta per seguire quella legata alla crescita indiana: strade, ponti, real estate, un intero sub-continente da costruire (o ricostruire) quasi completamente ex novo. Oltre all’ambizione dichiarata da parte dell’India di passare dall’attuale 7imo posto (con un output annuale di 44 milioni di tonnellate) alla seconda posizione nella produzione annuale dell’acciaio, entro I prossimi 10 anni.
E con ciò si spiega anche l’interesse da parte dei produttori occidentali, che venendo acquisiti da competitors indiani anche di minor profilo (come nel caso Tata vis a vis Corus) si assicurarano a loro volta garanzie di crescita ed espansione con in più la comodità di delegare al new boss la sgradevolezza di ridimensionamenti occupazionali e ristrutturazioni.
Insomma: il gioco era già duro prima, lo diventerà sempre di più nei prossimi anni e mesi. E Tata rappresenta in questo convulso quadro il caso forse più drammatico dell’irrevocabile degenerazione da modalità d’impresa diciamo “benevolente” (o “spirituale” come l’ha generosamente definito Danilo Taino in un’intervista a Ratan Tata, sul Corriere della Sera febbraio 2007) ad altre, decisamente più predatorie, come sta dando ripetutamente prova da qualche tempo. (vedi TATA STORY 2).
Peccato, perchè la Tata Story “ufficiale” era stata per almeno tre quarti di secolo piuttosto bella, una storia di cui davvero andare fieri. E su cui ovviamente il Tata web site, il poderoso Press Communication Department, nonchè il “Russi Modi Museo per l’Eccellenza” che la casa madre mantiene con meticolosa cura a Jamshedpur, continuano a ricamare in tutti I modi. Ma che non sarà mai più la stessa – proprio ora che non solo l’India, ma il mondo intero, ne avrebbe cosÏ bisogno.
di Daniela Bezzi (pubblicato su Notizie Internazionali N. 105 – maggio 2007)
lunedì 29 ottobre 2007
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