lunedì 29 ottobre 2007
TATA STORY 2
immagine >>link: http://www.bhopal.net/opinions/archives/2007/02/index.html
… o di coperta conflittualità?
Difficile immaginare una casata che nell’arco di 100 anni sia riuscita a mantenere invariato una pari reputazione di good business – nel doppio senso di alti profitti e Corporate Responsibility (o Responsabilità di Impresa). Difficile anche immaginare una conglomerata più ramificata e variamente posizionata dentro e fuori dell’India. Ben 93 diverse società, un fatturato equivalente al 2,9 del Pil indiano, una gamma infinita di produzioni e comparti. Tata & Sons in India è praticamente tutto, acciaio, telefonia, assicurazioni, energia, auto, servizi informatici, real estate, trasporti, camions, hotellerie, R&D, the e alimentari, belletti e orologi, aerie e yacht di lusso, auto e sempre più “servizi”, soprattutto finanza, per la gioia di 2,8 milioni di azionisti. Fuori dall’India Tata è una rete infinita di Joint venture, compartecipazioni, sussidiarietà e ottime relazioni (dal gabinetto di Gordon Brown in Inghilterra ai vari Bilateral Commerce and Business Groups, incluso il nostro sempre più fruttuoso India-Italy Commerce Group).
In che modo una tale e pervasiva operatività sia riuscita a perpetrare per un secolo esatto (visto che il centenario di Tata Steel si è festeggiato proprio quest’anno alla fine del mese di Agosto) una tale immagine di “capitalismo benevolente” o addirittura “spirituale” (come nell’entusiasmo si è sbilanciato a titolare il Corriere della Sera una rara intervista con Ratan Tata, pubblicata nel febbraio 2007) è sicuramente il prodotto di un’ottima “corporate communication” a sostegno di qualche indubbia buona azione. » comunque assodato che il 70% dei profitti Tata viene spalmato in varie iniziative di welfare o beneficienza a vario titolo (compresi omaggi agli amici, alle organizzazioni, ai giornalisti – e naturalmente agli attivisti da tenere amici, ecc.) che è un ottimo modo per ridurre le tasse facendo bella figura. E soprattutto (come ha avuto il candore di argomentare lo stesso Ratan Tata) è il miglior modo di “contenere il conflitto sociale”.
Di questa storia che si vuole solo gloriosa e “bella” è sempre esistita fino ad ora un’unica versione, soprattutto infiorata dal biografo ufficiale (tale Russi M. Lala). Con poche possibilità di verifica essendo l’immenso archivio conservato nei Caveaux del “Russi Modi Centre for Excellence” di Jamshedupur, ovvero considerato anch’esso “patrimonio” dei Tata - come del resto tutta la città, non a caso meglio nota come Tata Nagar, ovvero Tata City (la città ad amministrazione privata che i Tata fondarono nel 1907 in Jharkhand attorno alle acciaiere. E che abbiamo già raccontato nell’articolo "Tata Story 1” (consultare archivio a sinistra), rimandando I lettori all’infinità di siti ufficiali per maggiori dettagli.
Negli ultimi tempi però la Reputazione dei Tata si è gravemente incrinata, soprattutto in seguito al massacro dei 12 tribali di Kalinga Nagar (primi gennaio 2006) dove Tata Steel aveva previsto di raddoppiare il proprio output produttivo. E di nuovo la requisizione delle terre agricole di Singur ottenuta con la forza il 2 dicembre 2006, ha scosso e diviso l’opinione pubblica indiana – soprattutto per le conseguenze di disordini e violenza che da Singur a Nandigram ha messo a ferro e fuoco fino al mese scorso l’intera regione del Bengala, provocando uno scontro sociale comparabile solo a quello che negli anni ’70 vide la nascita del Naxalismo - ovvero la reazione armata, di ispirazione maoista.
Tra le varie contro-storie, la più recente e tra tutte più completa è redatta e diffusa dall’indiana ICJB (International campaign for Justice in Bhopal) con il titolo “Il vero volto dei Tata”. Ne stralciamo alcuni punti, rimandando per dettagli al sito www.bhopal.net/tataùrapsheet.html
1) complici della tragedia di Bhopal: l’inadeguatezza delle misure di sicurezza, nonostante I ripetuti allarmi degli operai, fu tra I maggiori capi d’accusa che causarono l’esplosione chimica del 2 dicembre 1984 e successivamente portarono all’arresto del dirigente della Union Carbide, Warren Anderson. Tra I pochissimi a condannare quell’arresto furono proprio all’epoca i vertici Tata. Da notare: buona parte delle apparecchiature di smaltimento erano state installate da Tata Consulting Engineers. Incredibilmente, e nel più totale disprezzo verso un movimento che da 23 anni pretende giustizia per quanti morirono asfissiati a migliaia quella notte e per le centinaia di migliaia che da tre generazioni sono vittime del disastro, Ratan Tata in persona (nell’influente ruolo di chairman del Forum ‘US-India Business’) sta di nuovo perorando il re-ingresso in India di Dow Chemical (che nel 2001 ha acquisito la Union Carbide e di conseguenza anche la responsabilità legale del caso): con tipica magnanimità Ratan Tata si è offerto di “prendersi cura” dello smaltimento dei residui tossici abbandonati dalla Union Carbide a Bhopal, in modo da chiudere l’annoso incidente e rendere così possibile un sostanzioso investimento di Dow Chemical - tra l’altro proprio in Bengala. Numerose manifestazioni di protesta sono state inscenate davanti all’Ambasciata Indiana di Londra. Amnesty International ha denunciato l’inopportunità dell’iniziativa;
2) una corporatocrazia? Nonostante la crescente opposizione (anche legale) i Tata persistono nel rivendicare la proprietà della città di Jamshedpur come cosa propria, requisita ‘naturalmente’ nel 1904 dal capostipite Jamshetji e tuttora priva di municipalità o governo eletto. Motivazione: “privatamente le cose funzionano così bene, perchè cambiare…”
3) gli affari con la Giunta militare birmana: persino Pepsi Cola è stata costretta ad uscirne qualche anno fa per la boycott campaign in occidente; ma i Tata non hanno avuto scrupolo nel firmare nel gennaio 2001 un accordo con la giunta militare di Myanmar per intensificare la cooperazione nel settore energetico. Accordo che prevede ‘crediti’per 20 milioni di dollari per migliorare la raffineria di Thanlyin in vista delle condutture che attraverso il Bangladesh permetterebbe al Governo indiano di ridurre la crescente emergenza energetica;
4) requisizioni, salute, impatto ambientale: vox populi fa risalire le prime estrazioni ferrose di Noamundi nel Jharkhand, da cui tuttora Tata Steel ricava ciò che poi lavora nell’acciaieria di Jamshedpur, ad una vera e propria occupazione di terre tribali e all’abbattimento delle foreste di Kosam da cui le tribù locali (Ho) ricavavano la lacca che era la loro unica attivitàoltre all’agricoltura. Privi di ogni altro sostentamento, ridotti alla fame gli adivasi (tribali) vennero quindi “forzati” a lavorare in miniera – in condizioni non tanto diverse da quelle attuali. Ben più gravi di allora sono sicuramente I livelli intollerabili di polluzione derivanti dall’intensificarsi del saccheggio (come ripetutamente denunciato dall’ottima rivista di ecologia Down To Earth).
Non minore l’emergenza creata dalle miniere di Cromo nelle aree di Sukhinda al confine con l’Orissa: il fiume Domsala e ben 30 corsi d’acqua che da esso derivano, risultano contaminati da altissime percentuali di hexavalent chromium (causa di malattie al tratto respiratorio, ulcere al setto nasale, spasmi bronchiali e polmonite). Altro disastro ambientale: quello del settembre 2003 in Gujarath, dove le ceneri di soda di Tata Chemicals in Mitahpur contribuirono al degrado dell’eccezionale biodiversità di oltre 10 km di costa, nel Marine National Park del Golfo di Kutch. E un altro insediamente chimico vicino a Hyderabad è comunemente definito “Inferno in terra” per le invivibili condizioni create da Rallis India, sussidiaria di Tata nel settore dei pesticidi;
5) violenza, massacri, diritti umani:
le popolazione della cittadina di Gua (sud Jharkhand) ricordano tuttora le violenze subite nel settembre 1980, per essersi opposte alla costruzione di un areodromo destinato esclusivamente agli “ospiti” o funzionari di Tata Steel – ma che avrebbe comportato la sparizione di parecchi villaggi nel circondario. La crescente tensione sfociò in una repressione che costò la vita di parecchie persone – e alcuni dei feriti vennero finiti a baionettate (!) addirittura dentro l’ospedale.
A Kalinga Nagar, nel Nord dell’Orissa, dove Tata Steel aveva progettato di raddoppiare il proprio output produttivo con un secondo impianto siderurgico, il massacro dei 12 tribali (2 gennaio 2006) ha provocato un coro di proteste e di denunce senza precedenti, dentro e fuori dell’India. L’episodio è anzi ormai considerato un punto di non ritorno nella situazione di tensione che attualmente caratterizza tutte le zone minerarie dell’India. E l’occupazione “per protesta” della National Highway 200 (la maggiore arteria di traffico commerciale dell’India, in quanto collega ad una media di 4000 camion al giorno la città di Mumbai al porto di Paradip, principale porto per l’export verso il resto dell’Asia) è proseguita per oltre 14 mesi. La resistenza tribale, sia a questo che ad altri progetti minerari, non accenna a spegnersi.
La fiorente economia agricola di una vasta estenzione agricola a soli 40 Km da Kolkata in località Singur, che dava da vivere a una popolazione di circa 6.500 famiglie (ovvero oltre 20 mila anime) non è riuscita invece a contrastare l’autoritaria requisizione delle terre che il 2 dicembre 2006 sono state ordinate per conto di Tata Motors dal governo del Bengala, nonostante I regolari certificati di proprietàdei molti proprietari (solo per il 50% d’accordo per la cessione) e l’impossibilità di indennizzare le migliaia di bargadars (ovvero mezzadri) che vi lavoravano. Motivazione delle requisizioni, impugnate con il coloniale Land Acquisition Act (1894): la regione ha bisogno più di industrie che di produzione agricola e collaterali attività. Impianti cui le terre verranno destinate: quelli per la fabbricazione della famosa low cost car, in compartecipazione sia tecnica che distributiva con Fiat. (Ne riferiamo in particolare nell’Art. “Il costo di quella low cost”).
La più disperante resistenza (ma sarebbe meglio definirla processo di estinzione) riguarda infine le poverissime regioni del Bastar, in Chattisgarh, un vasto territorio da millenni popolato da etnie antichissime di aborigeni (per lo più Gond) sempre più schiacciati letteralmente tra due fuochi: da una parte le sempre più agguerrite milizie naxalite (e risale al 15 marzo di quest’anno il ricordo delle decine di poliziotti uccisi durante un’operazione “dimostrativa”), dall’altra le milizie del cosiddetto Salwa Judum (che significa “marcia della pace”), molto probabilmente sponsorizzate dalla stessa Tata Steel - o così si ritiene localmente. Le testimonianze di coloro che hanno potuto visitare questi luoghi documentano l’atroce disumanitàdei campi cosiddetti “di rifugio” (o piuttosto “di concentramento”) in cui gli abitanti dei villaggi sono stati costretti a riparare, in fuga dai loro villaggi dati alle fiamme, o resi impraticabili per l’escalation del conflitto ambientale.
6) relazioni sindacali:
Gli inizi - Ancora poco documentate (ma oggetto di crescente interesse e ricerca) le condizioni del lavoro minerario durante i primi anni di attivitàdi TISCO (Tata Iron e Steel Company) nei primi anni del secolo scorso. In totale contrasto con le edulcorate versioni diffuse dalla vasta pubblicistica TATA, la memoria prevalentemente orale di quei territori “racconta” la storia di una lotta durissima contro le condizioni di lavoro che un Management “di ferro” (per lo più Parsi ed Europeo) riuscì ad imporre a popolazioni aborigene inizialmente e fieramente “riluttanti” a fare propri ritmi e modalitàdi lavoro nelle viscere delle loro terre (da essi venerate addirittura come Terra Madre, fonte di Vita, Fertilità).
I suicidi - Subito dopo aver assunto le redini del “business di famiglia” nel 1991, Ratan Tata adottò una politica di drastico ridimensionare per parecchie aziende del Gruppo. Clamoroso il caso di alcuni operai che nel 2003 si cosparsero di kerosene e si diedero fuoco per protesta.
Quando nel 1980 il costo dei terreni cominciò a crescere nel centro di Mumbai, le piccole officine tessili impossibilitate ad investire nella propria modernizzazione vennero persuase a vendere I terreni su cui sorgevano. Lo stesso fece Tata, allora ancora proprietaria della Swadeshi Mills – una delle aziende tessili più antiche di Mumbai. Ma a prezzi così bassi che in effetti determinarono il ribasso generale di tutta l’area, a grave scapito delle officine più piccole. Successivamente si venne a scoprire che anche questa era stata una precisa strategia, per facilitare l’accapparramento di vaste zone centralissime (e come si sarebbe poi visto, immenso valore commerciale) da parte di altri “soggetti economici” per la maggior parte “affiliati” alla Tata.
Condizioni occupazionali – Contrariamente alla leggenda che sottolinea le superiori condizioni di impiego in “casa Tata”, il numero di operai impiegati da Tata Steel si è letteralmente dimezzato nell’ultimo decennio: da 78.000 che erano nel 1994, il numero era giàsceso a 65.000 nel 1997 e nel 2002 altri 15 mila posti di lavoro erano stati eliminati, portando infine a 38.000 il totale degli operai “regolarmente impiegati” nel 2006. Tra questi più di 25 mila hanno ricevuto incentivi al pre-pensionamento che l’Azienda descrive come “volontari” ma che in effetti (secondo molte testimonianze) sarebbero il prodotto di un classico mobbing.
Relazioni sindacali – Nel 1989, gli operai organizzati nel sindacato nel Telco Kamgar Sanghatana (alla fabbrica della Telco di Pune) proclamarono uno sciopero per ottenere degli aumenti salariali. Per romperne l’unità il management Tata offrì un lieve aumento agli operai del Sindacato rivale, diffondendo al tempo stesso minacce severissime per chiunque osasse scioperare. Ciò non impedì, nel settembre 1989, lo sciopero a tempo indeterminato di ben 3000 lavoratori. Man mano che lo sciopero proseguiva e nessun negoziato sembrava in grado di scalfire l’unità operaia, l’amministrazione locale cominciò a ricevere pressioni di “intervento” da parte dei Tata e di altri grandi industriali. La crisi sfociò quindi (nella notte del 29 settembre 1989) nella cosiddetta e tuttora famosa Operazione Crackdown: un’azione militare in piena regola, di notte, con l’ausilio delle forze di polizia delle cittàdi Pune, che si concluse con l’incarcerazione di centinaia di scioperanti. Per portarli via tutti (con la forza) furono necessari ben 80 autobus!
Cadaveri (non) eccellenti – Abdul Bari e V.G.Gopal erano due sindacalisti e vennero uccisi (ufficialmente da alcuni sindacalisti di una formazione rivale alla loro) per aver rifiutato i termini di una certa vertenza contro la Tata. In entrambi i casi (mai realmente indagati) “vox populi” parla di inquietanti responsabilità da parte della Direzione Tata nell’istigare gli assassini.
7) capitalismo spirituale vs resistenza territoriale nel: - 1996: nel caso della resistenza dei tribali del distretto di Rayagada in Orissa, contro un progetto minerario che avrebbe trivellato il sacro monte Baphlimali per estrarne Bauxite. La vicenda culminò nel 2000 con l’uccisione di tre giovani durante una pacifica dimostrazione di protesta, in difesa del sito prescelto per la miniera.
- 2000: quando i Tata furono costretti ad abbandonare uno dei tanti progetti di siderurgia nella città costiera di Gobalpur. A fermarli fu la massiccia protesta di oltre 20 mila persone che erano state espulse con la forza dalle loro terre per fare spazio agli impianti. Anche in questo caso si verificarono scontri di polizia con spargimento di sangue e parecchi feriti. In particolare nell’agosto del 1997 la polizia aprì il fuoco contro un rally di protesta a Sindhigaon. Due donne persero la vita durante I tumulti.
- Alla fine degli anni ’90, quando la protesta di circa 120 mila pescatori costrinse i Tata ad abbandonare il progetto di convertire vaste porzioni del Lago Chilika in un sito per l’allevamento intensivo di pesce (progetto che avrebbe tra l’altro previsto il coinvolgimento di numerosi “partners” internazionali).
di Daniela Bezzi (pubblicato su Notizie Internazionali N. 105 – maggio 207)
Fonti: Amnesty International, FIAN Report, Nostromo.org, Students from Bhopal.org
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